I protagonisti di Boris 4. Credits: The Apartment/Star/Disney.

L’inferno è pieno di quarte stagioni, ci viene detto nel primo episodio di Boris 4. E però l’attesissimo e rischiosissimo ritorno, oltre un decennio dopo, di René Ferretti e della sua troupe, con gli 8 episodi usciti il 26 ottobre su Disney+, può dirsi orgogliosamente una scommessa riuscita. E finisce col contare davvero poco che le gag non siano tutte ugualmente a fuoco, che certi snodi narrativi risultino frettolosi, che alcuni personaggi, vecchi e nuovi, restino un po’ in ombra e che l’inevitabile (e legittimo) fan service prenda talvolta il sopravvento.

Perché, al netto del suo meritatissimo status di cult, nemmeno il “vecchio” Boris era (né pretendeva di essere) esente da limiti. Ma a qualità”, quella vera, stava in una satira affilata delle dinamiche lavorative nell’emblematico microcosmo della tv e del cinema italiani, capace al contempo di costruire un pantheon di irresistibili non-eroi dell’assurdo quotidiano. E la nuova serie prosegue su questa strada, calandola con intelligenza nel presente.

Pietro Sermonti (al centro) e Carolina Crescentini (a destra) in una scena di Boris 4. Credits: The Apartment/Star/Disney.

Canterò una storia nuova?

Come anticipa la sigla di Elio e le Storie Tese, il segreto della riuscita di questa stagione sta anzitutto nell’aver voluto raccontare «una storia nuova». Almeno, in un certo senso. Senza, cioè, rintanarsi totalmente nella nostalgia, ma seguendo e adattando a sé la lezione dei più riusciti seguiti della serialità recente (a cominciare dal lynchano Twin Peaks): tematizzare e sottolineare, anziché occultare e addolcire, il peso degli anni trascorsi. Perché, sì, molte cose sono cambiate, fuori come dentro la finzione. A partire dalle assenze di Mattia Torre, originale co-autore con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, e della Itala di Roberta Fiorentini, venuti a mancare entrambi nel 2019.

Ma anche il mondo della produzione audiovisiva nel Belpaese non è più lo stesso. A rompere il monopolio di fatto della “Rete” (versione à la Boris della Rai all’epoca dell’asfittico duopolio con Mediaset) c’è stato l’arrembaggio delle piattaforme streaming internazionali. Come quella disneyana sotto la cui egida ha visto la luce il ritorno di René Ferretti/Francesco Pannofino & soci. Dunque siamo in un mondo migliore, giusto? Non esattamente. La serie che impegna ora l’elettricista Biascica/Paolo Calabresi, il direttore della fotografia Duccio/Ninni Bruschetta, l’operatore Lorenzo/Carlo De Ruggeri, l’aiuto regista Arianna/Caterina Guzzanti e tutti gli altri si chiamerà pure Vita di Gesù, ma non è il paradiso.

A ben vedere, infatti, i mali del sistema Italia sono rimasti più o meno gli stessi. L’affresco evangelico, non per nulla, è prodotto dalla “Not So Italian” degli infelici sposi Stanis/Pietro Sermonti (interprete cinquantenne di Gesù) e Corinna/Carolina Crescentini. In associazione con la Q.Q.Q. (“Qualità Qualità Qualità”) di Diego Lopez/Antonio Catania, che per anticipare i fondi e rimediare comparse si è rivolto a un parente ndranghetista che usa il set per riciclare denaro non proprio limpido e piazzare improbabili comparse calabresi.

Alessandro Tiberi e Francesco Pannofino in Boris 4. Credits: The Apartment/Star/Disney.

Non lo famo, ma lo dimo

La differenza stavolta, per citare ancora la sigla, sta nella «norma» a cui i neocolonizzatori esteri subordinano il foraggiamento dell’italico piccolo schermo. “Norma”, però, tutta tecnocratica (garantita com’è dall’arbitrio del dio-algoritmo) e retorica, con formule stereotipe come “high concept” e ipocrite riverniciature politically correct. Il volto di questo sistema è la new entry Allison/Emma Lo Bianco, executive della piattaforma, opposta e complementare con le sue call-lampo al Dr. Cane delle passate stagioni, sempre inquadrato di spalle.

Si può dunque continuare ad umiliare e malmenare i lavoratori (o meglio, gli “schiavi”) sul set, purché non lo si faccia in favore di videocamera per il backstage. Inutile, d’altronde, provare a sindacalizzare la manodopera: le lusinghe da potenziale protagonista del nuovo attore Tatti Barletta/Edoardo Pesce sono più forti delle prospettive rivoluzionarie. Via piuttosto ai coming-out forzati nella troupe o alle torsioni storico-ermeneutiche perché tra gli apostoli del Messia ci sia anche un coreano (o almeno un cinese), o per introdurre anacronistici dialoghi femministi nella Palestina di duemila anni fa. Più che di garantire davvero diritti, si tratta di inseguire le presunte tendenze del mercato, che fa assomigliare tutti i prodotti fra loro, con tanto di sottotrama teen.

Ogni cosa, in Boris 4, è a ben vedere il ribaltamento di ciò che sembra. Il ferrettiano “Dai, dai, dai!” si rovescia all’inglese in un (esilarante) augurio di morte, e la promessa “lo includiamo” suggerisce già per assonanza il suo trucido contrario. Se poi all’epoca de Gli occhi del cuore mancavano i soldi (e la volontà politica) per fare “a qualità”, stavolta qualcuno che paga (forse) c’è: ma questo non ci ha reso migliori. “Non lo famo, ma lo dimo” non è solo il nuovo “a cazzo di cane” a misura di kolossal biblico, ma la sintesi del nuovo trend dove la forma, più che essere sostanza, la occulta per la nuova socialmediacrazia.

Francesco Pannofino, Caterina Guzzanti e Ninni Bruschetta in Boris 4. Credits: The Apartment/Star/Disney.

Vita, locura e redenzione di René & Co.

Un discorso analogo può valere per i nostri protagonisti. Questo seguito di Ciarrapico e Vendruscolo ce li mostra segnati, nel bene e nel male, dallo scorrere del tempo, che però anche qui agisce gattopardescamente, modificando tutto perché, almeno certe cose, restino uguali. Duccio è diventato cieco, ma è una scusa (si tratta di un banale problema di cataratta) per estraniarsi da un lavoro (e da una realtà) che lo deprime. Alessandro/Alessandro Tiberi è manager della piattaforma, ma continua ad essere angariato dai colleghi, superiori o sottoposti che siano. Arianna ha una famiglia, ma sul set è rimasta la macchina da guerra che non può concedersi distrazioni o indulgenze, tanto meno con se stessa. Idem per le guest-star, fra cui spicca il Mariano di Corrado Guzzanti, che ha trovato la sua nuova (non meno bellicosa) religione nel culto americano delle armi.

Ma tale coerenza dolceamara nel cambiamento non fa che rendere queste piccole grandi icone del nostro immaginario ancora più vicine a quello che per noi già sono: figure reali per grottesca e delirante umanità. Perché, se i personaggi di Boris esistessero nel nostro mondo (e un po’ ci esistono), dopo dieci anni sarebbero verosimilmente come li abbiamo ritrovati nella fiction. La fuoriserie, insomma, resta fedele a se stessa senza rifare se stessa, come ci suggerisce il più toccante degli scarti metanarrativi, quello dello sceneggiatore-fantasma Valerio Aprea, allegoria di un Mattia Torre del quale non si sottace la mancanza ma di cui non si tradisce la poetica.

E René? In fondo, questa quarta stagione è sua, più ancora delle precedenti. Ed è prima di tutto a lui che, forse, nella prosecuzione del (cristologico, non per nulla) calvario attraverso la “merda” audiovisiva viene concessa una prospettiva di resurrezione. Nella morte dell’ennesimo progetto sbagliato e nella sfida al Golia dello streaming, per non ridursi a “finestrella” nel catalogo on demand, per far (ri)nascere, finalmente, qualcosa di “bello”.

Una piccola grande vittoria che, d’altronde, non può prescindere dall’italiana “locura”, forse non così diversa da quella d’Oltreoceano (o forse Oltreceano sono “molto italiani”). Il cerchio, comunque, si chiude. E i nostri beniamini probabilmente non saranno mai gli apostoli di una nuova televisione che contribuisca a redimere l’Italia. Ma hanno cambiato, almeno un po’, la vita degli spettatori che si rispecchiano nella loro (a)normalissima via crucis.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.