Articolo di Dafne Franceschetti
Presentato a Cannes 2021 e poi alla Festa del cinema di Roma, dopo un breve passaggio in sala adesso è disponibile in streaming su Prime Video Red Rocket, l’ultimo film di Sean Baker. Una tragicommedia nel Texas industriale e trumpiano, pop, e coloratissimo.
La lezione di Wiseman
«Come osservare e raccontare uno spazio urbano», titola il paragrafo di un bel saggio di Massimiliano Coviello dedicato allo straordinario In Jackson Heights di Frederick Wiseman, del 2015, un’opera caleidoscopica in cui il maestro del documentario compie l’impresa di restituire agli spettatori la complessità della variopinta e cosmopolita comunità del Queens. È una domanda che il cinema si pone sin dai suoi albori, sin da quando l’appello vertoviano chiamava i giovani ad imbracciare le macchine da presa e scendere in strada per, ancora una volta, osservare e raccontare. E se certo narrare un paesaggio e la fauna umana che lo abita non è cosa semplice, d’altro canto la realtà può premiarci; ed è proprio Wiseman a ricordarcelo, lui che, scrive ancora Coviello, da sempre «non smette di scandagliare le strategie di assoggettamento che si producono all’incrocio tra dispositivi disciplinari (Foucault) e le istanze di controllo (Deleuze) facendo emergere le tattiche di resistenza e i processi di ricostruzione dei legami fiduciari e condivisione reciproca».
Si tratta d’un insegnamento prezioso che molti cineasti, forse persino inconsapevolmente hanno introiettato.
Un racconto dei margini fra «trash» e (pop) «art»
Seppur lontanissimo da quello di Wiseman, il cinema di Sean Baker, talentuosa voce del new indie americano, che con la sua continua trasfigurazione fiabesca della realtà, che mette insieme «trash» e (pop) «art», dimostra di aver ereditato la lezione della Factory warholiana e metabolizzato la cinematografia di Gus Van Sant, Korine e Clark. È infatti proprio giocato su questo punto: raccontare poeticamente i margini, le fessure, gli interstizi: quei luoghi in cui si muove e vive tutto ciò che è espulso – verso l’esterno in direzione centrifuga – dai luoghi dalle narrazioni ufficiali, dalle periferie di Hollywood, ai sobborghi che circondano Disneyworld in Florida, fino al Texas industriale e sottoproletario.
Non a caso è qui, in quel microcosmo torbido e machista, che crede ancora nel suprematismo bianco e nel sogno trumpiano, un luogo dalla lunga e sanguinosa storia (su quelle stesse coste gli schiavisti facevano arrivare e rivendevano gli schiavi neri, si sottolinea ad un certo punto nel film) che ha inizio il nuovo film di Baker, Red Rocket, presentato in Concorso al Festival di Cannes 2021 ed in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma.
Un Texas tutto fabbriche e canali, filmato per la prima volta in 16 mm e non con gli iPhone con cui Baker aveva debuttato, che vediamo scorrere dal finestrino del bus prima ancora che il regista ci presenti i suoi personaggi; perché d’altronde il paesaggio è sempre un personaggio dei suoi film, il regista lo ha confermato a più riprese, ed in conferenza stampa dalla Croisette ha ribadito la meraviglia e la fortuna d’imbattersi in simili location decadenti, oscene – perché fuori scena, ai margini appunto – ma anche ricche di storia ed incredibilmente cinematografiche: un regalo (wisemaniano) della Realtà, poi trasfigurato sotto lo sguardo di Baker, e riempito di colori e di un pizzico di fiaba.
L’oscenità come fil rouge della narrazione
E forse l’oscenità, come ha evidenziato anche Sergio Sozzo su Sentieri Selvaggi è la chiave di lettura per entrare in questo film. Tutto è osceno, a partire dal suo protagonista Mikey Sober, interpretato da Simon Rex, star di Scary Movie, che nel film interpreta un’ex stella del porno mainstream, che dopo aver fallito a Hollywood è costretto a tornare mesto e senza un soldo nella Texas City che aveva abbandonato anni prima grazie alle sue “doti” ed a chiedere aiuto all’ex moglie, ormai tossicodipendente e disperata. Lo scenario è desolato, quell’America appunto, in piena campagna elettorale trumpiana (le riprese risalgono al 2016), dove il linguaggio in primo luogo è usato in maniera oscena, un‘America simile a quella raccontata da Roberto Minervini in film come Louisiana – The Other Side o Stop the Pounding Hearth.
L’illuminazione arriva quando, miraggio nel deserto, in un negozio di ciambelle “Donuts Hole” (ecco che l’oscenità del linguaggio, delle allusioni e di un certo sesso rigorosamente sessista fa nuovamente capolino tra le righe) incontra Raylee, detta Strawberry, giovanissima cameriera del negozio, interpretata da Suzanna Son, trovata da un casting su Instagram. Strawberry riaccende i sogni di gloria di Mikey che vuole fare di questa ragazza una grande pornostar ed arricchirsi lui stesso in quanto talent scout e agente: una nuova versione dell’American Dream, in cui per arricchirsi bisogna sfruttare l’altro, a partire dai corpi.
Il sex work e la pornografia
L’attenzione e la sensibilità di Sean Baker sul mondo del sex work in tutte le sue sfaccettature, ereditata da un certo attivismo queer da cui proviene, è qui ribadita, da Tangerine a The Florida Project, dove in entrambi i casi la prostituzione è presentata come un modo per sostentarsi, per arrivare invece a Red Rocket in cui il mondo del porno è dipinto impietosamente: sono lontane le “boogie nights”, ci si avvicina piuttosto all’immagine che emerge da un altro film visto a Cannes, Pleasure, della regista svedese-franco-olandese, Ninja Thyberg, che demolisce pezzo dopo pezzo il sistema produttivo pornografico mainstream, sessista, violento e senza scrupoli.
Lo sguardo umano di Baker
Ma ciò che caratterizza Baker è che a differenza di altri autori e autrici, non si esime dal mostrare il marcio e lo fa senza mai essere giudicante o cinico, lasciandoci così davanti un paesaggio umano (molto umano) devastato dal capitalismo patriarcale, schiacciato, in macerie, ma con il quale è impossibile non empatizzare.
Articolo di Dafne Franceschetti
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